REVIEWS
A MIDWINTER NIGHT’S DREAM
 
Dino Betti ha già dato buone prove di sé come leader e arrangiatore in varie occasioni; questa volta si cimenta con un disco in cui si rivelano pienamente anche le sue capacità di compositore dal gusto vigile e “colto” che, pur tenendo conto della grande tradizione del jazz orchestrale afro-americano, non disdegna gustosi “sconfinamenti” nelle espressioni parallele, quali ad esempio la bossa nova e il funky. Per dar corpo alle sue idee, Betti ha riunito e brillantemente diretto una big band molto qualificata in cui figurano alcuni dei solisti più significativi che agiscono nell’area milanese. Tra le “performances” più significative va segnalata una lunga suite dal titolo “A Long Train of Memories”, suddivisa in sei tempi, e inoltre il brano che dà il titolo all’album e il prelibato “Georgica”.
 
Pino Candini – La Notte – 25 novembre 1983
 
 
Dino Betti van der Noot torna in scena con il suo secondo long playing con la disinvoltura e la perentorietà del musicista ormai conscio delle proprie risorse. Si presenta al nuovo appuntamento oltre che come leader e arrangiatore (ruoli a lui consueti) anche come compositore, introducendo una lunga suite dal suggestivo titolo A Long Train of Memories e altri tre interessanti temi, due dei quali, A Midwinter e Georgica, a lungo respiro. Il risultato è un disco che sembra proprio rappresentare la fedele radiografia della personalità di Betti, jazzman per vocazione, ma anche con il compiacimento della propria origine europea e ben disposto verso tutte quelle forme musicali che con il jazz hanno avuto in questi ultimi anni contatti più o meno prossimi e più o meno positivi.
Ne fa testo la lunga suite che, a parer mio, intende essere un compendio di quelli che secondo Betti sono i punti fermi dell’espressione jazzistica e parajazzistica, con i suoi riferimenti al funky (The basic Riff), a certa politonia di rimando (She’s Got), all’importanza della meditazione espressiva che le ballads sanno offrire (Blue Gal) e con l’omaggio a ciò che Ellington definiva “l’inizio di tutto”, ossia al blues, rivisitato nei due aspetti, sempre secondo Betti, più emblematici: quello moderato e intimista (Velvet) e quello corposo e aggressivo e certamente più spettacolare (Flaming). La radiografia è veritiera anche nel caso di A Midwinter, tema di estrema trasparenza, raffinato e ispirato in ogni dettaglio, da cui affiora più che mai l’estrazione culturale del Nostro.
Ma il background risalta forse più nitidamente in Georgica: qui l’approccio jazzistico meriterebbe, in altra e più adeguata sede, un esame particolare. Anchr il tema finale, And Suddenly, è significativo al proposito, con quella sua improvvisa apertura a una delle forme musicali parajazzistiche più valide degli ultimi vent’anni, la bossa nova. Aggiungo, per concludere, che la perfetta comunione di intenti tra leader e esecutori si rivela in diversi momenti, soprattutto quando Bedori, Heredia, Trovesi, Palumbo, Biasutti, Soana e De Filippi sono impegnati come solisti.
 
Bruno Schiozzi – Musica Jazz – dicembre 1983
 
 
Con questo stupendo album Dino Betti si ripresenta in una forma smagliante ed appassionante.
Betti ha “scodellato” un piatto prelibato per i buongustai, toccando in alcuni brani vette di un lirismo sorprendente.
La libertà di esprimersi gli permette di trasmettere, attraverso la sua ‘Dream Band’, le sue sensazioni e di comunicare emozioni che possano arrivare ad un pubblico sempre più vasto, capace di recepirne il contenuto.
 
Antonio Perreca – Ritmo – dicembre 1983
 
 
L’album è destinato a diventare, nella prospettiva di una storia dell’attività jazzistica italiana, come un punto di riferimento per l’inizio degli anni Ottanta. Infatti Dino Betti ha saputo esprimere in modo originale ed autonomo il suo modo di concepire il jazz, sospeso fra passato e futuro in un gioco gradevolissimo di scambi e di continue sorprese. Lasciando poi mano libera agli improvvisatori quanto è giusto sia in simili occasioni.
Gli appassionati di jazz, quelli di ieri come uelli di oggi, si troveranno perfettamente a loro agio perché il discorso di betti è di quelli che conciliano le simpatie di tutti. E anche se dice di condividere le idee di Giorgio Gaslini (applicandole in georgica, un pezzo gustosissimo con echi folk), non cade nell’errore di corrergli appresso. Come del resto dimostra di non voler correre dietro a nessuno e, seguendo una linea e un gusto tutti europei, non polemizza con il vecchio blues, ma nemmeno cerca scorciatoie nel “free”.
 
Famiglia Cristiana – 8 gennaio 1984
 
 
Le imprese discografiche di Betti, tutte e solo con grande orchestra, sono rare e questa è la più illuminante. Il disco è il risultato (o la molla?) di una dimensione onirico/emulativa dalla quale “mi era necessario affrancarmi proprio attraverso una personale rivisitazione”, com’egli stesso confessa nelle note al disco.
Benvenuta questa necessità sentita di rivisitazione, perché le interpretazioni che ne escono dimostrano il raggiungimento (e superamento) di una dimensione maiuscola di compositore e di orchestratore.
Ed insieme rivelano una collaborazione animata da molti intenti, primo dei quali quello di un “labour of love” ideale, da parte di uno stuolo di solisti tutti ugualmente ispirati. Comparando le tendenze direi che la vena nostalgico-introspettiva prevale per contenuti sui tempi mossi. Registrazioni eccellenti.
 
Giuseppe Barazzetta – Avvenire – 20 gennaio 1984
 
 
Ecco l’atteso disco dal titolo parashakespeariano di Betti van der Noot, figura singolare del panorama jazzistico italiano. I risultati sono tali da chiedersi se non sia il caso che Dino trascuri un po’ il mestiere di pubblicitario per proporci più di frequente le sue big-bands, per le quali scrive partiture e arrangiamenti di notevole finezza e complessità, valorizzando sapientemente le voci dei solisti che vi concorrono.
È il caso di questo riuscitissimo long-playing, che segnalo ai programmatori radiofonici e ai tecnici della sonorizzazione visiva, cui partecipano molti fra i migliori jazzmen italiani di oggi.
 
Luca Cerchiari – Superstereo – gennaio 1984
 
 
Niente di più facile che venire piacevolmente intrigati dai tre momenti blues ch aprono la facciata B, dalla ovattata atmosfera di “A Midwinter Night’s Dream”, dall’attacco naïf di “Georgica” seguito, in successione esponenziale, da una sezione fiati davvero pregevole o, ancora, da “Suddenly in June…” che smbra da un lato voler siglare il tutto con una impalpabile bossa nova, dall’altro lasciare aperto il discorso che potrebbe essere ripreso improvvisamente (a giugno?). Il lato A comprende una suite intitolata “A Long Train of Memories”, dove tutto il gusto e il fascino di poter disporre della grande orchestra esalta la composizione e gli arrangiamenti.
 
Alberto Tonti – Musicomania – 9 febbraio 1984
 
 
Le jazz est certainement la seule musique où l’on rencontre un aussi grand nombre de “cas”. Ainsi le compositeur, arrangeur et chef d’orchestre Dino Betti van der Noot occupe un eplace à part dans le jazz italien et par cnséquent européen. Amateur plus qu’éclairé, il est bien difficile de caractériser ce publiciste passionné qui propose un deuxième album abouti dont le charme opère à mesure qu’on l’écoute.
Longue flânerie, rêverie, son unité stilistique naît de la grande diversité des situations musicales très cohérentes. Travaillant sur la continuité, Dino Betti développe des variations sur des thèmes généralemente simples. Les arrangements sont très fouillés et visent davantage la couleur et la poésie que l’impact sonore spectaculaire, ce qui nous vaut de véritables réussites au niveau des alliages de timbres instrumentaux. La musique est servie par un personnel prestigieux, dont certains membres sont des solistes d’envergure (Gianni Bedori, Hugo Heredia, Sante Palumbo ou Gianluigi Trovesi, merveilleux sur le morceaux titre).
L’objectif de ne pas tomber dans le maniérisme et de faire une musique pouvant être écoutée par tous sans pour autant renoncer à une rigueur formelle et fondamentalement à un contenu poétique est atteint; et comme Dino déclare que c’est un album de transition, cela laisse augurer d’autres bien belles choses pour le prochain, incéssamment enregistré. Un dernier mot pour qualifier la prise du son: optimale.
 
Philippe Bourdin – Jazz Hot – Avril 1984
 
 
Betti: “Da dilettante scopro una libertà detta big band”
Martedì prossimo, alle ore 21.15, inizia presso il Teatro delle Erbe (Via Mercato 3, quartiere di Brera) una stagione di concerti di jazz italiano. L’organizzazione è curata dal Gruppo Musica della Cariplo con la consulenza artistica della  Cooperativa internazionale  “Music Unlimited”. Oltre a dare spazio ad alcuni fra i maggiori autori-esecutori nazionali e a vari ospiti stranieri, la stagione intende valorizzare uno dei più attrezzati e accoglienti teatri da camera della città. L’apertura è affidata alla “Big Band” di Dino Betti van der Noot. La serata inaugurale riveste un particolare significato sia per la presenza, oggi non frequente, di un’orchestra di jazz di diciotto elementi, sia per la singolare personalità del direttore, che fa di professione il pubblicitario. “Betti” gli abbiamo chiesto “lei come musicista è il tipico “dilettante di lusso”. Che cosa vuol dire, dal suo angolo visuale, fare musica”?
“Quella definizione è piuttosto impegnativa, visti i personaggi cui è stata affibbiata in passato. Però è anche comoda, perché solleva dall’obbligo di recitare un ruolo fisso, ossia di compiere sempre, in ogni occasione, le scelte che il pubblico si aspetta. Il dilettante può fare quello che  vuole quando vuole, ammesso che trovi il tempo. Ciò posto, posso dirle che fare musica, per me, significa comunicare delle emozioni che non saprei comunicare in altro modo. In questo bisogno c’è un parallelismo con la mia professione di pubblicitario, che è anch’essa comunicazione. Nell’un caso come nell’altro sento la necessità di comunicare in modo diretto, cioè accessibile a molti, e se possibile innovativo”.
Perché, fra i vari “generi” di musica ha preferito il jazz? E perché, all’interno del jazz, si è interessato al linguaggio orchestrale?
“Credo che il jazz abbia rappresentato, per me, la via per costruirmi una personalità autonoma nei confronti di una tradizione famigliare strettamente classica. In seguito, ho scoperto nel continuo divenire di questa musica, nel suo rinnovarsi a ogni esecuzione, la sua aderenza al modo di vivere contemporaneo e al mio atteggiamento nei confronti della vita. Quanto alla big band, l’ho scelta perché mi offre una gamma incredibile di colori musicali. Inoltre, io ritengo di essere un pessimo esecutore, ragion per cui non posso esprimermi compiutamente in un piccolo complesso: mi sono necessari il momento compositivo, l’organizzazione della grossa formazione, il piacere di costruire delle trame e dei percorsi”.
Qual è, in linea di massima, il programma della serata?
“Suoneremo dei brani già presentati nel mio ultimo long playing pubblicato dalla Five; altri costituiscono un’anteprima di un disco in preparazione; altri ancora sono stati composti appositamente per il concerto”.
Come definirebbe il suo stile compositivo attuale?
“Si tratta di un tipo di approccio, più che di uno stile. Nella mia big band spicca soprattutto una ricerca timbrica. E poi, ripeto, c’è la volontà di piacere (nel senso migliore del termine) anche ai non specialisti. Ritengo che, per essere comprensibili a un pubblico più vasto, non sia obbligatorio adeguarsi continuamente agli “standard” più consumati, rinunciando al rigore formale o (peggio ancora) al contenuto poetico. Inoltre non bisogna rifiutare nulla a priori. Io, come molti musicisti europei, sono la risultante di impulsi culturali a volte in contrasto fra di loro”.
 
Franco Fayenz – Grande Milano Spettacoli – 12 gennaio 1985
 
 
Divertente concerto a Milano del pubblicitario con l’hobby della Big Band
I sax d’assalto del vulcanico Dino Betti
“L’importante è cercare di evitare i cliché, le frasi fatte. Ce ne sono troppe oggi nel jazz”. Così Dino Betti van der Noot, con la sicurezza che sempre l’accompagna in tutte le imprese, spiega la sua musica, il lavoro appassionato condotto con i componenti la sua formazione. Un lavoro purtroppo limitato a poche prove, faticosamente strappate ad altri impegni, perché si tratta di un’orchestra sui generis, che si riunisce solo saltuariamente, nei ritagli di tempo, e lui stesso del resto è un “bandleader” di tipo un po’ speciale.
Dino Betti, infatti, fa il pubblicitario, ha un’agenzia, la B Communications, che lo occupa interamente, ma il tempo libero è quasi tutto destinato alla sua grande passione, il jazz per big band.
Da anni di questo suo hobby di lusso ha fatto, non diciamo una seconda professione, ma certo un’occasione per farsi ascoltare e conoscere attraverso concerti e realizzazioni discografiche (due elleppì già pubblicati, un terzo in preparazione, con l’apporto anche di jazzmen stranieri come Mitchel Forman e Daniel Humair).
La formazione che ha diretto l’altra sera al Teatro delle Erbe, è un’organico di diciotto elementi, quello tipico delle big band moderne, da Stan Kenton in giù.
E proprio Stan Kenton rappresenta il punto di partenza della scrittura di Dino Betti, una scrittura caratterizzata dall’accumulo di situazioni diverse, dagli echi di esperienze molteplici, non ortodossa, ma ricca di felici invenzioni, in cui Betti disvela il suo atteggiamento onnivoro nei confronti della cultura musicale jazzistica e non, e una naturale propensione verso le cose non facili.
Laboriose sono infatti le strutture di tutti i suoi brani, dai già noti “Midwinter Night’s Dream” “Blue Gal of My Life” ai nuovissimi che ha presentato l’altra sera come “Memories from A Silent Nebula”, ispirato a un canto gregoriano, il delicato “October’s Dream & Caro Arrigo”, dedicato ad Arrigo Polillo, e il trascinante ossessivo “Another Basic Riff”.
I solisti si sono messi in bella mostra soprattutto quelli dell’agguerrita compagnia dei sassofonisti, ed efficace è parsa la sezione ritmica guidata dal fin troppo esuberante Pellegatti.
Un buon successo e tante feste da parte dei numerosi amici del vulcanico pubblicitario-bandleader.
 
Pino Candini – Il Giorno – 17 gennaio 1985
 
 
La “band” di Mister “jingle”
Milano. Grazie a Dino Betti e alla sua big band, alla Music Unlimited e alla Cariplo – che hanno organizzato il concerto – il Teatro delle Erbe ha vinto la sua battaglia per il jazz. Nonostante la città fosse bloccata dalla neve il Teatrino di via Mercato era in pratica esaurito martedì sera per l’inizio dell’annunciata piccola stagione jazzistica. In palcoscenico la big band riunita da Dino Betti per proporre le sue musiche. Da “Jeu de Pommettes” a “A Midwinter Night’s Dream” (che è il titolo di un recente disco del compositore) a “Memories from A Silent Nebula” che si avvale di uno schema gregoriano e che ha una bella parte per il violoncello di Elisabetta Sola e per la tuba di Fiorenzo Gualandres a “October Dream” tutti temi solidamente costruiti in senso armonico e con numerosi e piacevoli spunti melodici che fanno spesso pensare a Duke Ellington e a Quincy Jones. Dino Betti van der Noot – questo è il suo nome completo – non è un musicista di professione. Guida una grossa agenzia di pubblicità per la quale scrive anche i cosiddetti “Jingles” musicali, quelle frasette appiccicose che sono un po’ il simbolo dei vari prodotti. Ma la sua passione è la grande musica e la composizione per big band. Così di tanto in tanto, strappando notti al suo lavoro, riunisce un’orchestra, prova e realizza un disco. Il suo recente “A Midwinter Night’s Dream” è stato accolto dalla critica con parole di elogio e ciò ha spinto Betti alla realizzazione di un nuovo microsolco che si chiamerà “Here Comes Springtime” e che vanterà al pianoforte la presenza di Mitchel Forman, uno dei giovani pianisti più in vista del jazz di oggi, e alla batteria Daniel Humair, certo il più forte percussionista europeo. Il concerto è venuto a sancire, con una presenza dal vivo, queste musiche che fino ad oggi avevano come palestra soltanto i lucidi solchi di un disco. Ed è stato un successo con chiamate a scena aperta e con molti applausi dopo ogni esecuzione. Molto in forma sono apparsi i due sassofonisti: Tino Tracanna e Riccardo Luppi, ma tutta l’orchestra ha meritato interamente la simpatia del pubblico.
 
Vittorio Franchini – Corriere della Sera – 18 gennaio 1985
 
 
Vi comunichiamo che il vostro Gruppo ha vinto la 3^ Rassegna nazionale dei gruppi jazz emergenti.
 
Osman Leoni – Naima Jazz Club – Arcimedia – Forlì 24 luglio 1986