REVIEWS
HERE COMES SPRINGTIME
 
Avendo tenuto a battesimo, in questa rubrica, i precedenti due ottimi dischi di Dino Betti van der Noot, compositore, arrangiatore e bandleader, ero preparato, quando è giunta per la recensione quest’ultima sua fatica, a una piacevole conferma. Non ero preparato, però, a ricevere, nel corso dell’ascolto,un così violento shock.I n effetti il disco è di quelli che colpiscono, che lasciano traccia. Dino Betti, con questo digital Lp, ha detto realmente la sua e proprio in un campo, quello del jazz orchestrale, in cui in Italia si è sempre detto ben poco, a differenza di quanto è avvenuto, invece, nel campo dei gruppi e dei solisti.
Affermare che “Here Comes Springtime” testimonia la piena maturazione espressiva nel nostro jazz orchestrale non è compiacimento o orgoglio nazionalistico. È a mio parere, pura e semplice verità: è convinzione formatasi dopo una serie di attente e meditate audizioni. Audizioni che hanno tra l’altro consentito di accertare come il merito di quest’importante opera non vada soltanto ascritto a Dino Betti (pur riconoscendo al leader le maggiori responsabilità), ma anche alle prestazioni, più che eccellenti e, spesso, ai limiti della perfezione, dei solisti (Franco Ambrosetti, Donald Harrison, Mitchel Forman, Rudy Brass, Gianluigi Trovesi, Bob Cunningham, Daniel Humair) e dei preziosi sidemen (tra cui Hugo Heredia, che spazia anche in assoli di estrema competenza, Sergio Rigon e Leandro Prete, tanto per fare qualche nome). Migliori musicisti Dino Betti non poteva trovare per dar vita alla sua particolare scrittura che tiene conto di molte fonti ispirative, che si avvale di mille  soluzioni e che è caratterizzata da una fragranza timbrica che da tempo il sound delle big band, teso a una sempre più implacabile perfezione formale e ad una certa enfasi effettistica, non riusciva a raggiungere.
Ne fanno fede l’abbagliante trasparenza di Eterni sono gli atti (che Donald Harrison e Rudy Brass sanno così intensamente esaltare); il respiro caldo e corposo di Just The way (che coinvolge splendidamente l’estro di Trovesi); la composta,accorata melanconia di Caro Arrigo, dedicato al “nostro” indimenticabile Polillo, cui si sovrappone il crepuscolare nitore di October’s Dream.
E, ancora,la sinuosità dell’andamento di Here Comes Springtime, una ballad cui spetta di diritto l’ingresso nel novero delle grandi ballad, e il camaleontico So Far, ricco di invenzioni estemporanee ma improntato anche al più lucido raziocinio.
Tutto questo, ed altro ancora, fanno di “Here Comes Springtime” un disco che certamente raccoglierà – e non soltanto in Italia – i consensi più lusinghieri. L’autorevole Nat Hentoff, autore delle piacevoli note di copertina, ne è convinto.
 
Bruno Schiozzi – Musica Jazz – luglio 1986
 
 
I reviewed, on this magazine, both the very good former albums by Dino Betti van der Noot, composer, arranger and bandleader, and I was prepared to find in this one a good confirmation of my judgement. I was not, anyway, prepared to get, in listening, such a strong shock. Actually, this album hits, leaves a sign. Dino Betti, through this digital LP, really says an original word just in a field, the large orchestra jazz, where Italy said very little so far, differently from what happened with small groups and soloists.
If I say that Here Comes Springtime shows the full expressive maturity of our large orchestra jazz, it is not indulgence or nationalistic pride. It is, in my opinion, the simple truth: it is a conviction I got after a number of careful and meditated listening. After which I found that the merit of this important work should not be ascribed to Dino Betti only (although I recognise his main role), but also to the more than excellent, and often near perfect, performances of the soloists (Franco Ambrosetti, Donald Harrison, Mitchel Forman, Rudy Brass, Gianluigi Trovesi, Bob Cunningham, Daniel Humair) and of the precious sidemen (first of all Hugo Heredia, who solos too with great pertinence, Sergio Rigon and Leandro Prete, just to give some names). Dino Betti could not find better musicians to bring to life his very special way of composing, that keeps account of many inspiration sources, uses thousand different solutions and is characterized by a timbre freshness which since sometime the big band sound, trying to reach a more and more implacable formal perfection and a kind of straining for effect, did not show anymore.
It clear in the dazzling transparency of Eterni sono gli atti (that Donald Harrison and Rudy Brass underline so intensely); the warm and solid breath of Just The Way (greatly involving Trovesi’s inspiration); the quiet, grieved melancholy of Caro Arrigo, dedicated to “our” unforgettable Polillo, to which the dusky clearness of October’s Dream is superimposed. And, more, the sinuous development of Here Comes Springtime, a ballad that has the full right to be listed in the great ballads book, and the chameleon-like So Far, rich in extemporaneous intentions but marked by the clearest reason too.
All this, and much more, makes Here Comes Springtime an album that surely will get – and not only in Italy – the brightest success.
Authoritative Nat Hentoff, who wrote the liner notes, is sure of this.
 
Bruno Schiozzi – Musica Jazz – July 1986
 
 
Il  “made in italy” pronto per l’America
Due dischi di jazz italiano con una insolita e orgogliosa caratteristica in comune, quella di aspirare, fin dalla loro apparizione, al mercato internazionale e a quello statunitense in particolare.
Il primo è firmato da Dino Betti van der Noot, una strana figura di musicista dilettante che scrive musica, la orchestra, la dirige, la incide e la produce e che, così facendo ha già messo al suo attivo due notevoli imprese musicali. Quest’ultima è intitolata “Here Comes Sprigtime” (Soul Note) e si vale di una grossa serie di solisti di fama internazionale, dal pianista Mitchel Forman, al sassofonista Donald Harrison, ai trombettisti Franco Ambrosett, .Rudy Brass e Mike Burke, al batterista Daniel Humair, al percussionista Luis Agudo, al bassista Bob Cunningham, senza dimenticare Gianluigi Trovesi, Leando Preti, Sergio Rigon, Hugo Heredia (argentino ma italiano di adozione) e Peppino de Mico ai sassofoni, Nerino Spampinato e Luigi Tisserant alle trombe, Luca Bonvini, Ron Burton, Rodolfo Meledandri e Claudio Nisi ai tromboni, Gianni Farè al vibrafono, Luca Perreca al cello e la voce di Linda Wesley.
Fra le cose più notevoli del disco, che raccoglie nuove, piacevoli e ricche composizioni di Dino Betti van der Noot, è la dimensione del suono, un suono a tutto tondo per nulla scheletrito dalla smania di fare dell’orchestra una macchina perfetta, ma al contrario lasciato un po’ andare quasi si volesse dare, appunto, maggior peso a certe limpide trasparenze e a certi momenti estatici piuttosto che a ritmi troppo equilibrati e robotici. Insomma un disco che profuma di poesia e nel quale alcuni dei nostri jazzisti, posti a diretto confronto con colleghi americani, non soltanto non sfigurano ma addiritura li surclassano, come nel caso di Gianluigi Trovesi che trova in “Just The Way We Live Tonight” una splendida palestra per la sua fantasia. Grande plauso, dunque, a Dino Betti e alla sua terza fatica discografica.
 
Vittorio Franchini – Corriere della Sera – 13 agosto 1986
 
 
I giovani italiani alla ribalta
Il tempo della primavera è davvero arrivato per Dino Betti  van der Noot: una felice creatività caratterizza la sua attività di questi tempi.
Compositore ormai maturato, Betti imposta il progetto di questo disco d’autore – è tutto suo dalle composizioni agli arrangiamenti, alla direzione e produzione – due punti essenziali: una cifra stilistica personale e riconoscibile e una resa esecutiva strettamente corrispondente alle idee e al gusto dell’autore, grazie ad una orchestra accuratamente formata da solisti scelti con consapevolezza uno per uno. Il risultato non può essere che perfetto: temi seducenti, articolata elaborazione di essi, atmosfere raffinate. La presentazione critica del noto Nat Hentoff lo sottolinea.
Si tratta di una musica che esce dagli stretti ambiti jazzisti per assumere connotati più larghi. È una colonna sonora dei percorsi onirici degli uomini moderni, ora gradevolmente rielaborata, altre volte incalzante, melanconicamente soft nei temi d’amore. Commovente è la breve ballad Caro Arrigo, dedicata ad Arrigo Polillo, figura incancellabile nella memoria di coloro che amano il jazz. Nell’orchestra sono da segnalare i contributi speciali di D. Harrison (alto sax), R. Brass (filicorno), G.Trovesi (clarinetto,basso), H. Heredia (sax baritono), L. Bonvini (trombone), M. Forman (piano), L. Agudo (percussioni), B. Cunningham (basso acustico), F. Ambrosetti (tromba), D. Humair (batteria). Non per ultima la copertina bellissima, frutto di una pensata scelta professionale.
 
Rossana Buono – L’Ora – 28 agosto 1986
 
 
La rivelazione del jazz è un estroso pubblicitario
 “La cosa piu’ paradossale per un compositore? Non inventare nulla di nuovo, ma recepire dei suoni che vagano indistintamente nell’aria e attendono solo il momento opportuno per essere catturati e messi su un pezzo di carta, di finire disposti l’uno sull’altro nello spazio di un pentagramma e, infine, di essere eseguiti da un buon complesso di musicisti. Il momento più bello è forse questo, quando decidi di afferrare una serie di suoni dal luogo più recondito in cui si erano nascosti e di portarli alla luce”.
L’idea è estremamente affascinante e Dino Betti van der Noot si presenta come un magnifico esemplare di ipercreativo “multimediale”, che lancia i suoi messaggi artistici ora nel campo dei graphics e delle pubblicità, ora nel mondo sonoro delle big-band jazzistiche, fra assoli di sax soprani e squilli vibranti di trombe e tromboni.
Un campione di versatilità e un artefice di getti creativi notturni (“spesso la notte indugio sulla tastiera del pianoforte”, confessa), che vive un’estrosa abitazione, fra inquietanti sculture in legno delle isole del Pacifico e illustri feticci della pop art come i Tilson e i Lichtenstein, e dirige una grossa agenzia di pubblicità che sull’arte di diffusione dei messaggi ha forgiato la propria arma sin dal “macluhaniano” nome di battaglia: B Communications.
 
Come raccontare amori e passioni
 “In effetti il desiderio di comunicare con gli altri, di raccontare in termini poetici gli amori, le passioni, le gioie e i momenti di angoscia è sempre stato una costante della mia personalità” racconta Dino Betti, “e cosa c’è meglio della musica per lanciare messaggi carichi di poesia e dialogare con il pubblico?”.
Da alcuni anni la cantina di casa sua è divenuta un piccolo tempio del jazz milanese e internazionale, uno studio di registrazione in piena regola dove, fra sofisticati apparecchi e ricercatissimi impianti di incisione, microfoni, strumenti e partiture si sfornano dischi di successo che partono alla conquista del mercato italiano e internazionale: l’ultimo di questi, il terzo in ordine cronologico fra quelli di Dino Betti, è uscito nel Giugno scorso in Italia con il titolo Here Comes Springtime, salutato dalla critica come una sorprendente rivelazione nel panorama jazzistico italiano, e proprio in questi giorni sta debuttando negli Stati Uniti.
Per suonare la sua musica, sorretto dalla stima di quanti lo hanno incoraggiato a gran voce perché continuasse a comporre, Dino Betti ha chiamato a raccolta il fior fiore del professionismo jazzistico internazionale, clarinettisti come Gianluigi Trovesi e sassofonisti come Donald Harrison (che normalmente suona con Art Blakey), bassisti come Bob Cunningham e giovani rivelazioni americane come Forman. Per il prossimo disco si sono già avvicendati in sala d’incisione sassofonisti del calibro di Bill Evans, o tanti altri strumentisti che militano nei complessi di John McLaughlin e Pat Metheny. “Il primo disco uscì circa dieci anni fa, ad opera di una grossa orchestra di dilettanti milanesi che avevo messo insieme perché suonasse i miei arrangiamenti preferiti, in un moderno stile swing. Dal gruppo (che si chiamava “The Basement  Big Band” perché già suonavamo in cantina) imparai ad essere più rigoroso e preciso, a scrivere esattamente quegli effetti che volevo ottenere. I guai cominciarono a venire quando mi misi a scrivere secondo un altro stile (che i critici oggi collocano a metà tra il jazz e l’avanguardia): i dilettanti non riuscivano ad adeguarsi, per ragioni tecniche e culturali, e, così, pur reputandomi io stesso un semplice appassionato dilettante, passai a reclutare dei musicisti di professione”.
Ma i suoi interessi musicali a quando risalgono?
“Da giovane mi riversai su ogni genere di strumento, applicandomi con risultati controversi al pianoforte, al violino, e poi approfondendo gli studi di armonia e composizione. Quasi contemporaneamente però, frequentavo l’università Bocconi per studiare economia, e naturalmente mi prodigai per inserire la musica nell’università fondando il Jazz Club Bocconi e organizzando qualche concerto. In seguito, cercai di non perdere mai di vista il campo musicale. Approfittavo delle permanenze negli Stati Uniti per perfezionare le mie competenze, ad esempio frequentando la Berkley School of Music di Boston, e riuscii in qualche modo a conoscere la tecnica degli strumenti per i quali volevo comporre: la chitarra, il contrabbasso, la tromba, il flauto e il sassofono. Così mi formai una coscienza e un pensiero musicale e, quasi senza saperlo mi misi a scrivere”.
È più jazz o più avanguardia la sua musica?
“Credo che sia più  jazz, perché gli schemi di ragionamento sono essenzialmente jazzistici, e alternano parti scritte e improvvisate mantenendo un certo ritmo essenziale e chiaro. In realtà, già alcuni anni fa feci degli esperimenti di avanguardia ma proprio non riuscivo a comunicare con la gente, e pensai allora di “cambiare musica…”.
 
Una catena di emozioni
In che senso?
“Nel senso che ormai mi interessa soprattutto raccontare delle storie che abbiano un capo e una coda, creando dei percorsi sonori che scatenino delle emozioni e formino magari delle reazioni a catena. Come sarebbe affascinante, se l’ascolto della mia musica potesse sollecitare la nascita di un quadro, o l’origine di un libro o di un film! Una serie di associazioni emotive che continuino pressoché all’infinito, nel tempo e nello spazio”.
Una sorta di messaggio per i posteri quindi?
“Per un certo verso sì. Alla base della mia musica c’è sicuramente l’esigenza pura e semplice del divertissement, del piacere di esprimere qualcosa, ma anche un’inclinazione filosofica tipicamente occidentale: quella di sostituirsi quasi alla divinità e di creare qualcosa di eterno, lanciando durevoli messaggi e comunicando con gli altri”.
Ancora una volta la comunicazione; è per caso lo stesso principio con il quale lei si muove nella sua vera professione, per fare concorrenza ai colossi americani nel campo della pubblicità?
“Sostanzialmente credo in una comunicazione globale, non nell’impegno in un singolo settore o in un unico ramo. È indispensabile dire qualcosa di significativo con tutti i mezzi, anche con il linguaggio dei suoni, ormai parte integrante della pubblicità. E proprio in questo lavoro ho cercato di applicare la mia filosofia, scrivendo le musiche di jingles di successo che, oltre a far lievitare le vendite, mi hanno fatto divertire moltissimo”.
 
Luigi Di Fronzo - La Repubblica – 4 novembre 1986
 
 
This one’s a sleeper. A Milan advertising executive by day, Noot (rhymes with “boat”) is a gifted jazz composer and arranger by night. His songs owe a lot to Ellington’s merging of tonal colors and to Gil Evans sense of swing with a touch of European pop which gives a song like “Just the Way Live Tonight” a sleazy, Brechtian charm. Mostly though, Noot is a romantic with lush autumnal sensibilities as on his “Acts of Love Are Forever” which leads off with a unison alto sax and cello theme which develops slowly to give way to an insistent trumpet solo by Rudy Brass. On the sparkling title piece, he stacks up lush layers of harmonies which give way to an energetic gospel fervor. The 22 piece international orchestra includes Donald Harrison on sax, Ron Burton trombone, and Bob Cunningham bass plus some top European players like Franco Ambrosetti on flugelhorn.
 
Ray Murphy – The Boston Globe – November 13, 1986
 
 
Il fatto di privilegiare il complesso orchestrale come proprio mezzo espressivo è decisione ardua da attuare, soprattutto in Italia. Eppure Betti la persegue da anni, pur attraverso indicibili compromessi per assicurarsi la presenza dei musicisti che predilige. E al ritmo sapiente di un disco ogni tanto riesce a sfornare dei risultati che spiccano subito perché altamente significativi sia per le proprie valenze di compositore ed orchestratore che per quelle dei jazzisti che sceglie ad interpretare le sue partiture. Come questo che, in misura ben maggiore dei precedenti, indica la notevole maturità conseguita dall’autore; perché dal disco emerge chiara l’importanza della figura dell’inventore e coordinatore entro il conseguimento collettivo. I pezzi di Betti sono tanto individualmente significativi in quanto non seguono mode e correnti in cui il lavoro orchestrale corre spesso il rischio di incorrere; e procedono sul piano prevalentemente lirico, tanto che essi possono essere ascoltati, o meglio, che ci si possa immergere come in un flusso ininterrotto e molto conseguente di esperienze musicali, come in una suite, di cui essi rappresentano i momenti più pregnanti. Altro aspetto singolare è dato dall’aggiunta all’orchestra del cello, del vibrafono, delle percussioni e della voce muliebre in funzione strumentale. Che dire dell’eccellenza collettiva e personale dei 21 musicisti che lo attorniano, se non che ogni timbro o gioco di sezioni è forgiato in modo oculato; fra tutti emerge quel musicista maiuscolo che è Gianluigi Trovesi. Registrazioni digitali.
 
Giuseppe Barazzetta – Avvenire – 14 novembre 1986
 
 
JAZZ TARGATO ITALIA
La via italiana all’internazionalismo jazzistico in due fulgidi esempi: “Notes” di Roberto Gatto e “Here Comes Springtime” di Dino Betti van der Noot. Stavolta non sono le solite scappatelle del tipo “Acchiappiamo il tal musicista americano di passaggio, organizziamo la jam in studio e il disco è bell’e fatto”. Nossignore. Qui ci sono dei progetti seri, articolati, molto ambiziosi, concepiti da due artisti nostrani assai diversi tra loro, ma con almeno una caratteristica in comune:la volontà di superare il provincialismo che inquina gran parte del jazz di casa nostra. Intendiamoci: non sono certamente i primi, né saranno gli ultimi, ma stavolta siamo di fronte a due operazioni condotte con particolare brillantezza, e bisogna dar loro il risalto che meritano.
………
Passiamo a Dino Betti van der Noot: qui il progetto è ancor più strutturato ed ambizioso, giacché ci troviamo di fronte ad una imponente big band di ventidue elmenti, divisa esattamente a metà tra gli italiani e stranieri (guarda il caso: proprio due squadre di calcio….). L’arbitro dell’incontro è l’uomo degno del mitico Giano bifronte: abile ed efficiente menager di giorno, col calar delle tenebre si trasforma in visionario pittore di note. La metafora è abusata, ma così calzante che non si può evitare: sì, l’orchestra è la sua tavolozza. Betti van der Noot crea arrangiamenti lontani mille miglia dal meccanismo formale di tanti suoi colleghi d’oggigiorno: dipinge impressioni e sentimenti rompendo spesso, se lo ritiene opportuno, ogni convenzione. Si ascoltino gli insoliti impasti strumentali che ama usare nelle sue composizioni: inutile citare questo o quel titolo, giacchè ovunque c’è qualcosa di nuovo. E poi i solisti: Donald Harrison fa un po’ la parte del leone, ma anche Franco Ambrosetti (splendido il suo intervento al filicorno in “So Far Away”), Gianluigi Trovesi (magistrale in “Just The Way We Live Tonight” e “Here Comes Springtime”). Rudy Brass, Hugo Heredia, Luca Bonvini, Bob Cunningham e Mitchel Forman hanno modo di farsi apprezzare, mentre Daniel Humair è, come al solito, impeccabile (e si sa quanto sia importante e deliicato il ruolo del batterista in una big band). Davvero un gran bell’album, che giunge a coronamento di oltre tre lustri dedicati da Betti van der Noot al jazz per grossa orchestra: complimenti!!!
 
Maurizio Favot – Mucchio Selvaggio – dicembre 1986
 
 
Metheny and Coleman’s “Song X” hit the spot
The year’s five best albums, in order:
1. Pat Metheny and Ornette Coleman, Song X (Geffen) – A sometimes startling, sometimes brilliant triumph of uncompromised collaboration from two innovators who are worlds apart.
2. Don Pullen/George Adams Quartet, Breakthrough (Blue Note) – The most successful album to date by perhaps the best working band in modern jazz.
3. Dino Betti van der Noot, Here Comes Springtime (Soul Note) – A fresh and challenging use of the big-band idiom from an unheralded composer.
4. Keith Jarrett, Standards Live (ECM) – Jarrett’s trio hit the road and continue the imaginative excellence of their acclaimed studio dates.
5. Branford Marsalis, Royal Garden Blues (Columbia) – A swinging, delightfully brash tour de force from Wynton’s older brother.
 
Neil Tesser – USA Today – December 18, 1986
 
 
Troisième album de cet “amateur éclairé” enthousiaste qui s’est entouré de grands noms aptes à servir son écriture, l’une des plus personnelles et intéressantes du moment. Un jazz orchestral acoustique, équilibré, contrasté, où le jeu sur les volumes et les couleurs est trés important.
La poésie de ces paysages sonores opère au fil des écoutes et l’on passe de la contemplation à des ambiances plus dramatiques ou nostalgiques.
 
Phlippe Bourdin – Jazz Hot – 433 1986
 
 
Nell’Olimpo jazz atterra un milanese
“Usa Today” premia Dino Betti
“Sono ancora esterrefatto dalla notizia, e se non l’avessi sotto gli occhi, proprio non ci crederei. Chissà, forse finirò per montarmi la testa, anche se al momento mi sento soprattutto riconoscente verso i musicisti che hanno suonato nell’incisione”. La notizia per Dino Betti van der Noot, band leader e compositore dilettante di jazz, di professione responsabile dell’agenzia milanese di pubblicità B Communications, è davvero delle più radiose. Il suo ultimo disco uscito nell’86, Here Comes Springtime, è stato segnalato come terzo “miglior disco di jazz” dell’anno nella classifica stilata dall’autorevole quotidiano Usa Today. Un accesso al podio jazzistico statunitense che mai nessun italiano (tanto meno “dilettante” come ancora Dino Betti ama considerarsi) aveva ottenuto. E un riconoscimento tanto più prestigioso, se si considera che l’Oscar del jazz è andato a un musicista come Pat Metheny, per il suo disco Song X inciso in coppia con Ornette Coleman, mentre al secondo posto si è classificata l’incisione di Break Through da parte di Don Pullen e del George Adams Quartet. In quarta posizione, dopo Dino Betti, si è collocato Keith Jarrett con Standars Live, mentre all’ultimo posto della mini Hit Parade compare Royal Garden Blues del sax tenore emergente Brandford Marsalis. Le motivazioni del riconoscimento a Dino Betti parlano di una “sfida nell’uso dell’idioma di una big-band da parte di un compositore outsider”. Niente male per un musicista che in fondo, malgrado stiano per uscire altri due dei suoi album di jazz (They Cannot Know per quest’anno e A Chance for A Dance per il prossimo) si considera ancora un pubblicitario a tutti gli effetti.
 
Luigi Di Fronzo – La Repubblica – 20 gennaio 1987
 
 
Big band sound still big in hearts of many
A recent poll found that 21 percent of Americans included big band music among their personal interests. Only seven percent included jazz. These figures suggest some confusion about labels, perhaps, but also indicate that the big band sound retains a place in the hearts of many. And while live big band music can be found only sparingly, records continue to appear. Italian ad man and composer-conductor Dino Betti van der Noot seems less concerned with swing than with seeing how many different colors and dynamics he can explore with the ten musicians he directs on “Here Comes Springtime”. His music has little of the full blast charge that characterizes the Gibbs date. Where the vibist works with bright primary colors Betti van der Noot deals with softer and subtler hues, reflecting a musical vision that’s just as rewarding in a different way. The writing has great range, encompassing stirring unaccompanied passages, a flute-bass-drums interlude and lyrical ensemble sections. Throughout, Betti van der Noot frames his soloist, including American altoist Donald Harrison and pianist Mitch Forman, with consistently intriguing backdrops.
 
Eric Shepard – The Journal News – January 29, 1987
 
 
Successo e onori per Dino Betti
E  il jazz italiano inebriò gli Stati Uniti
Una notizia sensazionale, proveniente dagli Stati Uniti, ha messo in agitazione l’ambiente del jazz italiano. Il quotidiano “Usa Today”, che gode di credito e diffusione notevoli, ha compilato una classifica dei cinque migliori long playing del 1986, nella quale si è piazzato al terzo posto l’album “Here Comes Sringtime” del compositore e direttore d’orchestra Dino Betti van der Noot, pubblicato dalla Soul Note. Lo precedono “Song X” di Pat Metheny / Ornette Coleman e Breakthrough di Don Pullen / George Adams , mentre lo seguono Standards Live di Keith Jarrett e Royal Garden Blues di Brandford Marsalis. Il primo a essere sorpreso è l’interessato, che però, giustamente, non nasconde la grande soddisfazione. Betti fa di professione il pubblicitario a Milano, ma il sale della sua vita è la musica. I critici italiani lo chiamano “il dilettante di lusso” per far capire che non lo considerano affatto inferiore ai professionisti, ma gli americani sono andati ben oltre. La motivazione del riconoscimento parla di “un fresco e coraggioso uso del linguaggio della grande orchestra da parte di un compositore non ancora celebre”. È Betti stesso a spiegare la sua scelta del jazz orchestrale. “Il jazz” dice “mi si è presentato come la via per costruirmi una personalità autonoma nei confronti di una tradizione familiare strettamente classica. Poi, strada facendo, ho scoperto nel suo rinnovarsi ad ogni esecuzione la perfetta aderenza del jazz al modo di vivere contemporaneo e al mio atteggiamento professionale nei confronti della vita. L’orchestra, dal canto suo, mi offre una gamma incredibile di colori musicali. Siccome io credo di essere un pessimo esecutore, non potrei esprimermi compiutamente in un piccolo complesso; di qui la necessità del momento compositivo, dell’organizzazione della grossa formazione, del piacere di costruire delle trame e d’indurre i solisti a dare il meglio. Here Comes Springtime è il suo terzo long playing, nato lentamente in uno studio di registrazione che Betti si è costruito apposta.
 
Franco Fayenz – La Stampa – 31 gennaio 1987
 
 
BACK TO THE FUTURE
George Russell and Gil Evans are not getting any younger, and one may be forgiven the indiscretion of wondering whom among younger arrangers will carry the torch. Often building on Russell’s and Evans’ contributions, a few writers offer hope for the era – far in the future, we hope – after these giants have left the field.
Unlike these elder statesmen, Italian composer/arranger/conductor Dino Betti van der Noot forsakes electronics on Here Comes Springtime for the most part without loss of visceral wallop. Virtuoso command of voicings suggest earlier Gil as an inspiration; Dino’s evanescent feel for varied, disembodied harmony makes his charts coloristically richer if less startling than Willem Breuker’s or Mathias Ruegg’s. Betti van der Noot’s band swings more lightly than Breuker’s Kollektief or Ruegg’s VAO, and his charts are more apt to delicate – waltzes, ballads, pastorales. Soft or hard, they’re spearheaded by guest sax soloist Donald Harrison, whose unforced inclusiveness marks him as perhaps the most impressive of ’80s Messengers modernists – he appreciates both Johnny Hodges’ lyricism and Jimmy Lyons’ motility. Dino and Donald remind us that big bands may never sound better than when a splendid soloist comes to the fore.
 
Kevin Whitehead – Down Beat – February 1987
 
 
Dino Betti van der Noot is an Italian arranger/composer who also runs an agency in Milan. So, apparently music is an avocation. One wonders how the head of an ad agency gets to release an LP on one of the most respected jazz labels of the ’80s. And with some damn good musicians to boot. Connections, I suppose. (Soul Note is Milan based.) However, if it were just connections, this record wouldn’t sound this good.
The orchestral palette Betti van der Noot (from here on BvN) favors is, for the most part, bright and airy, as the album’s title suggest. He employs exotic sounding percussion and favors soaring melodies. Many of the compositions are multi-parted with changes of tempo. They work well at inspiring the soloists. Harrison, in particular, is a surprise. With Blakey, he seems to be the typical Jazz Messenger, always digging in for a meaty, hard-edged solo. Here, his alto sounds romantic, almost wistful. Harrison’s playing throughout, is right in the spirit of the proceedings.
One strong recommendation for this record is the opportunity to hear Italian clarinettist Gianluigi Trovesi. Little known on this side of the Atlantic, he is one of the foremost exponents of his instrument. Normally he is heard in a more free context, but BvN makes good use of his clarinet. The 3/4 theme to “Just the Way”… is punctuated by Trovesi’s squiggles and squeaks. On the title track, Trovesi contributes a magnificent E-flat clarinet solo. It starts unaccompanied and sparse and gradually builds with thematic development. It follows a pattern analogous to a flower opening in springtime: timid at first, then developing more and more in grandeur. (Romantic music tends to inspire romantic imagery sometimes). Harrison’s solo on the same track, following the same strategy is equally successful. “October’s Dream” is another highlight, inspired by a trip to Japan and conveyed through scoring only for flute, bass (Bob Cunningham is superb), and percussion.
There is a lot to recommend this LP. I could quibble over a few minor points. Sometimes the writing is overlush and detracts from the soloist. Also, BvN favors the 3/4 metre a little too much.
I’d like to hear what BvN can do with a straight ahead chart. Ultimately, this is a very nice sounding record and I found myself whistling the melodies at work. So, why quibble?
 
Robert Iannapollo – Cadence – February 1987
 
 
La big band è una brutta bestia. In molti ci hanno perso tempo e denaro. Uno di quelli è Dizzy Gillespie, che pure ne mise su un paio che hanno fatto epoca. Il problema è tenere insieme tanta gente: è un’impresa maledettamente difficile e costosa,ed è per questo che se ne vedono davvero pochine, di grosse formazioni, in giro. Ci si può consolare coi dischi, anche quelli, peraltro non certo numerosi. La band di van der Noot è di quelle davvero “big”: ben 22 elementi, divisi equamente tra italiani e stranieri. Tra questi e quelli i grossi nomi sono molti: il trombettista svizzero Franco Ambrosetti, il sassofonista neroamericano Donald Harrison, i “nostri” Gianluigi Trovesi, Luca Bonvini, Sergio Rigon… E ancora il pianista Mitchel Forman, il batterista Daniel Humair, il sassofonista Hugo Heredia: tutti hanno modo di farsi ben apprezzare. Ma gli spazi solistici, pur copiosi e di eccellente levatura, passano (almeno a parer di chi scrive) in secondo piano rispetto ai temi e agli arrangiamenti di van der Noot : un meraviglioso campionario di soluzioni brillanti, e spesso inconsuete, una continua sorpresa. Prendo ad esempio, per brevità, la lunga title-track : una continua, fluida alternanza di crescendo e diminuendo, con fasi intermedie che vanno dalla splendida solitudine all’inizio degli assoli di Trovesi e Harrison, al sanguigno blues feeling del pieno organico, con un dosaggio attento e raffinato della gamma dinamica a disposizione. Anche la “campana” tecnica suona a favore di questo eccellente CD: resa emozionante, seppur timbricamente molto corretta.
 
Maurizio Franco – Audioreview – aprile 1987
 
 
DINO BETTI VAN DER NOOT LEADS 23-PIECE BAND
Dino Betti van der Noot, who led a 23-piece jazz band in a Sunday-evening Greenwich Village Jazz Festival concert at Greenwich House, is a composer and arranger in the tradition of Gil Evans and, more distantly, Duke Ellington. The Italian musician, who was making his American debut, scored each of his compositions for a particular combination of instruments, requiring his reed players in particular to switch between a variety of flutes and saxophones. Brass and reed instruments were generally voiced together, in small groupings, rather than in brass and reed sections, giving each part its own particular color and density.
Mr. van der Noot had a group of accomplished New York musicians at his disposal, and he seemed sensitive to their particular capabilities. Randy Brecker’s trumpet often sang out over the ensemble, carrying long-lined melodic leads. Carmen Lundy’s fluid, wordless vocals were also used as a lead instrument. There were features for several soloists, including David Friedman, playing vibraphone, and Bill Evans, playing saxophone.
 
Robert Palmer – The New York Times – September 8, 1987